Mimmo Cuticchio, una tradizione in viaggio

“Prima vai a spolverare i Pupi, poi ti lavi la faccia tu e poi vai a giocare”. È cresciuto così Mimmo Cuticchio, figlio del puparo Giacomo Cuticchio e allievo di Peppino Celano, ultimo cuntista siciliano della tradizione ottocentesca. E la sua storia è anche la storia della Sicilia, è il frutto di tradizioni che si mischiano per dare alla luce qualcosa di nuovo e al tempo stesso antico.

Cuticchio infatti ha continuato le due attività, l’Opera dei Pupi ed il Cuntu, fondando a Palermo nel 1973 un proprio teatro che coniuga tradizione e sperimentazione. Il mondo dei suoi pupi è diverso da quello dei suoi colleghi, in passivo rapporto con l’Opra di tradizione: basti pensare ai suoi pupi di grandi dimensioni, alla scelta di condividere fisicamente la scena con le figure o all’ampliamento del repertorio classico legato alla tradizione carolingia ed alle battaglie tra Cristiani e Saraceni. Ma la grandezza di Mimmo Cuticchio non è dovuta solo a questo.

“Quando cresci in una famiglia di Opranti (i recitanti) e Pupari (i costruttori) capisci che il pupo nasce come personaggio e non come marionetta. Ha una storia, una madre, un padre, una nonna… ho imparato a conoscerli sin dall’infanzia così come ho imparato a conoscere la mia famiglia. Col tempo mi sono reso conto che questo è un teatro di creazione, acculturazione e aggregazione. In passato aveva la funzione che nell’era moderna sarà attribuita prima al cinema e poi alla televisione. Fare questo mestiere vuol dire non solo fare spettacolo, ma eseguire un vero e proprio rito.”

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Come ha detto lei, la funzione del teatro è stata modificata dalla diffusione di altri mezzi d’intrattenimento. Cambia il periodo storico, cambiano le forme d’arte. L’Opera dei Pupi oggi si rivolge ad un pubblico diverso?

“Alla fine degli anni ’60 e inizio anni ’70 c’è stata una crisi nell’Opera dei pupi. Finito il pubblico tradizionale che andava al teatro per seguire una storia, mi sono trovato davanti un pubblico diverso, di passaggio, fatto di curiosi e di turisti. E là c’è stata una trasformazione antropologica, ma è un fatto epocale. Quando cambia un’epoca cambia tutto.

Non volevo lavorare solo per i turisti, e così ho iniziato a rifondare il pubblico. Sono andato nelle scuole partendo da asilo ed elementari, poi scuole medie e superiori. Questo mi ha dato la possibilità da un lato di sopravvivere con un mestiere destinato ad essere fatto fuori dai nuovi mezzi di comunicazione e dai nuovi gusti arrivati dall’America. Dall’altro il pubblico dei giovani, che non sapeva niente del teatro dei nonni, cominciava ad avere una memoria”.

E questo ha influito molto sulla scelta di nuovi soggetti che si staccano dalla tradizione.

“Dovevo cambiare storie per poter tornare più volte nelle scuole, non potevo fare più cicli di 400 puntate. Sono tornato scolaro pure io e ho iniziato a studiare i libri di elementari e medie. Ho visto che si studiava l’epica greca e carolingia, così ho cominciato a montare l’Iliade, l’Odissea e la Gerusalemme Liberata. Questo mi ha dato la possibilità di creare nuovi pupi, copioni, fondali, cartelloni e trovare una comunicazione con questi giovani finalizzata allo studio che facevano a scuola. Attraverso lo spettacolo era più facile capire i testi di Omero, grazie ad un linguaggio più semplice e popolare”.

Il suo rapporto con la tradizione è stato messo in luce dalla rottura con il teatro di suo padre. È stato questo a che l’ha spinta verso il Cuntu?

“Negli anni della crisi, fine anni ’60, è finito il pubblico tradizionale. Mio padre voleva lavorare solo per i turisti e io non sapevo che fare. Sono andato da Peppino Celano per farmi aiutare a costruire i corpi dei Pupi. Lui era sempre impegnato a fare il Cuntu, ed io ero molto interessato. L’ho seguito per 3 anni, poi nel ’73 è morto. Era l’ultimo cuntista della tradizione ottocentesca: morto lui, non sarebbe rimasto più nessuno. Così molto timidamente sono andato nelle scuole e ho iniziato a raccontare le storie dei paladini, La baronessa di Carini, la storia di Santa Rosalia, e mi sono accorto che a forza di ascoltare avevo acquisito i ritmi, la cantilena metrica, e il respiro del mio maestro. Mi sono ritrovato a fare il Cuntu senza rendermene quasi conto. Ho capito che avevo preso la patente, potevo portare un’altra macchina oltre quella che avevo imparato a guidare prima. Per cui da una parte ho continuato il Cuntu tradizionale, ma dall’altra mi sono aperto ad un mondo nuovo: le opere liriche, Tosca, Manon Lescaut e poi Mastro Don Gesualdo, la storia di Garibaldi. Ho unito le tecniche tradizionali del Cuntu a storie diverse. Poi dopo tantissimi anni, nel ’92, con L’Urlo del Mostro, ho combinato il Cuntu all’Opera dei pupi. Sono entrato drammaturgicamente come cuntista nella storia dell’Odissea: Demodoco, il cantore cieco, che racconta una storia ad Ulisse. Da qual momento ho trovato la chiave di lettura. Doveva avere un senso introdurre il Cuntu nella storia, dovevano convivere drammaturgicamente, non andava fatto solo perché era bello”.

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Ha creato un nuovo genere a tutti gli effetti.

Esatto.

Che rapporto aveva suo padre coi Pupi?

“Mio padre comprò un teatrino antico nel ’33 a Palermo da un certo Giovannino Lonardo, a rate, 3000 lire, e quei Pupi ottocenteschi non li ha mai venduti. Era innamorato dei suoi Pupi, in particolar modo di Brandimarte. Diceva che l’avrebbe voluto nella sua tomba. Non gliel’abbiamo messo perché avrebbero rotto il vetro della cappella per rubarlo. Ma quando ho fatto con Maurizio Sciarra un film sulla mia famiglia, nel quale ha voluto riprendere la tomba di mio padre, quando siamo andati mi sono portato dietro Brandimarte e l’abbiamo tenuto lì un po’ di tempo.

Li amava profondamente, più di noi figli. A noi una scoppola l’avrebbe data tranquillamente, mentre i Pupi si potevano solo accarezzare. Quando ero ragazzino e la mattina mi alzavo e volevo andare a giocare lui mi diceva, prima vai a spolverare i Pupi, poi ti lavi la faccia tu e poi vai a giocare”.

A proposito di Maurizio Sciarra, nel suo documentario lei dice di essere “il capitano di una nave che viaggia sempre”. Nel senso che non smette mai di creare, ma anche di portare quest’arte in giro per il mondo…

“Sì, alzi le vele e vai. Giri la terra. Però devi anche avere la giusta idea del viaggio, che per me non è solo portare i Pupi nei quattro continenti. È soprattutto portare le storie. Che i pupi continuino a comunicare col mondo come si faceva 2000 anni fa, non come fatto folkloristico ma come teatro rituale che vuole trasferire storie, emozioni e valori dell’uomo di sempre: quella è una soddisfazione. Far alzare la bandiera italiana in Russia, Giappone, America o nel resto d’Europa. E non perché vedono il colore della Sicilia, ma lo spessore culturale del teatro siciliano”.

Infatti l’Opera dei pupi è stata riconosciuta dall’UNESCO “patrimonio orale e immateriale dell’umanità”. Questo rinnovato interesse c’è anche da parte delle Amministrazioni locali?

“Non succede niente di straordinario, solo la Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo del Ministero dei Beni Culturali in qualche modo ci ha sempre riconosciuto. Mentre la Regione Sicilia non ci ha mai dato nulla quando non c’era la legge. Ora siamo nove persone che lavorano fisse per tutto l’anno, più gli scritturati. Giriamo il mondo portando in alto il nome della Sicilia, siamo una sponsorizzazione vivente. Quest’anno la Regione ci ha assegnato 6000 euro. Non c’è bisogno di dire altro”.

Parliamo di cinema. Com’è stato il passaggio dal palco dell’Opra alla macchina da presa? È possibile in qualche modo confrontare i due mondi?

“Sono due mestieri completamente diversi. Il cinema ha bisogno di studio, allenamento, pratica. Il teatro è l’ambiente naturale per l’attore. Io nel ’70 avevo recitato in un film di Monicelli, avevo una piccola parte. Facevo il fidanzato di Monica Vitti in “Le coppie”. Pur essendo giovane – avevo 22 anni – capii che era un mondo in cui si doveva apparire, dimostrare. Al teatro non si dimostra ma si mostra attraverso l’Opera. Quindi non ebbi mai la tentazione di lavorare al cinema. A Roma l’ho fatto per pagarmi da vivere, come figurante e nei fotoromanzi. Il cinema mi piaceva ma sfuggivo sempre”.

Non era la sua natura.

“Per niente. Gli attori venivano coccolati e protetti, gli porgevano gli ombrellini per proteggerli dal sole… io sono teatrante, tutte ‘ste cose non mi piacciono. Mi veniva di dare una mano agli elettricisti e ai macchinisti per spostare le cose. Quelli cercano di tutelare gli attori come reliquie perché sono un investimento, è interesse del produttore che stiano bene.

Poi mi sono ritrovato Francis Ford Coppola che girava Il Padrino III al Teatro Massimo. Entrava nel teatrino e si metteva a chiacchierare. Appena avevano una pausa venivano a vedere i pupi, il pianino, le macchine sceniche, tanto che Coppola si inventò quella piccola parte e mi chiese se potevo raccontare una storia legata al tema. Io raccontai La baronessa di Carini.

Tornatore mi aveva chiamato per Nuovo Cinema Paradiso ma avevo una tournée e non l’ho fatto, non so neanche che parte mi voleva dare. Poi mi ha chiamato per Baarìa e l’ho fatto. Con Turturro c’erano pure i Pupi nella storia. L’unico film in cui non c’erano i Pupi è stato Terraferma, ma a Crialese non potevo dire di no, prima di tutto perché avevo visto i suoi film e mi erano piaciuti molto. Poi, quando lui mi venne a trovare e lessi la sceneggiatura pensai che la storia del personaggio che dovevo interpretare poteva essere la storia di un puparo. Sono stato a Linosa quasi quattro mesi per girare quel film. Tutti mi hanno fatto i complimenti per quella parte, tanto che mi sono chiesto come mai non mi piacesse fare cinema, come mai mi fossi sempre rifiutato.

Poi ho capito che io quella volta mi sono fatto Pupo, ho costruito un Pupo sopra di me. Era come se Ernesto fosse un pupo che mi ero cucito addosso, ci ho messo qualche mese a uscirne. Vivere coi pescatori nelle loro case, imparare i loro termini, andare a pesca di notte, dare una mano a sistemare le reti, vivere nell’isola solitaria… io sono diventato un indigeno di quel luogo. Per questo il personaggio è riuscito bene”.

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Cosa prevede l’edizione 2015 de “La Macchina dei Sogni”?

“Il desiderio…Ci devono dare i permessi definitivi scritti. Quest’anno vogliamo portare la rassegna al Museo Pitrè di Palermo. Vorremmo fare conoscere Giuseppe Pitrè ai siciliani, è stato l’etnografo più importante d’Europa, abbiamo uno dei primi musei di etnografia e di tradizione popolare d’Europa ma lo conoscono in pochi ed è poco frequentato. Vorremmo che questi 5 giorni di luglio dedicati ai racconti, alle fiabe, agli usi e ai costumi, ai giochi e ai canti avessero luogo lì. Fanno parte della memoria raccolta da Pitrè”.

Sta preparando qualche nuovo spettacolo al di fuori della rassegna?

“Sto lavorando con i miei allievi, 20 giovani che vengono da tutta la Sicilia. Abbiamo già fatto tre laboratori sulla drammaturgia. Fanno parte di un ciclo di quattro laboratori articolati in otto mesi. Stiamo trattando il Macbeth di Shakespeare e a fine maggio lo presenteremo a Palermo. Li porterò in scena e ci sarò anch’io sul palcoscenico, ma gli attori saranno loro. Aiutare i giovani significa stare loro accanto e aiutarli con la propria esperienza. Li ho guidati nel capire cosa significa recitare, lavorare a un testo, capire cos’è lo spazio scenico, la messa in scena e come affrontare il pubblico. Visto che in passato ho fatti altri due Macbeth, questa volta per scaramanzia abbiamo chiamato lo spettacolo Quella tragedia scozzese.”

 

Il teatro dei pupi è nato come potente mezzo di trasmissione del mito, ma anche come momento rituale e di partecipazione collettiva, per poi perdere questo fascino nel Novecento con la diffusione della cultura di massa. Per questo non si può non ammirare la forza con la quale Mimmo Cuticchio continua a reagire a questa perdita. La sua è la storia di un viaggio che parte dalla tradizione, una tradizione che lui stesso ama paragonare “all’acqua di un fiume che, pur scorrendo sempre tra gli stessi argini, non è mai la stessa acqua”.

 

La nostra intervista a City Lights »

 

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