E nel settimo giorno creò il Maracanà

Esistono luoghi con i quali è possibile identificare un movimento artistico, una religione, un’era intera. Essi sono identificativi a tal punto che sono più di un simbolo, sono ciò che rappresentano. San Carlo alle quattro fontane è il barocco, La Mecca è l’Islam, Notre dame de Chartres è il gotico, il Partenone l’età classica. Il Maracanà è il calcio.

Alla fine degli anni ’40 gli stati europei sono ancora in ginocchio a causa della guerra appena terminata e l’organizzazione dei mondiali di calcio viene affidata al Brasile, che però chiede un anno di proroga rispetto a quello previsto (il 1949) per poter realizzare impianti, infrastrutture e un sogno: lo stadio più grande del mondo. La proroga viene concessa e nel 1948 iniziano i lavori per la costruzione dell’allora Estadio Municipal, conosciuto da tutti come Maracanà, per via del fiume che attraversa la regione e per una specie di pappagallino tipico della zona. L’impresa è mastodontica, ma un’intera nazione si adopera in vista dell’enorme festa che sarà il mondiale, per edificare l’orgoglio del Brasile, per poter dire di aver partecipato alla creazione di un mito.

Il 19 Luglio 1950 più di 200.000 persone sono riunite in quel tempio per veder trionfare il Brasile sull’Uruguay, per mostrare al mondo la gioia e la forza del Brasile, per veder segnare Zizinho. Mai così tante persone hanno assistito ad un evento sportivo, e forse mai più accadrà. Tutto è pronto, sugli spalti la festa è già cominciata, Getulio Vargas sicuro della vittoria del Brasile ha indetto le elezioni per Ottobre, confidando di legittimare il suo potere sfruttando l’onda d’entusiasmo derivata dalla vittoria al mondiale, Jules Rimet ha già preparato il discorso con cui onorerà i brasiliani durante la cerimonia della consegna della coppa, persino i dirigenti uruguagi non immaginano altra fine se non la più grande festa sportiva di sempre.

Nessuno ha però fatto i conti con Obdulio Varela, un uomo che non ha mai perso una partita al mondiale, un uomo che è nato e vissuto nella povertà nonostante l’immensa fama, un uomo implacabile, irremovibile, “el Jefe”, il capitano dell’Uruguay. Al momento di entrare in campo Varela blocca i suoi compagni e, mentre là fuori 200.000 persone cantano ed urlano per il Brasile, gli dice: «Quelli là fuori non esistono», sa bene che bisogna tenere gli occhi bassi, alzarli e guardare quell’impressionante massa di gente che tifa per gli avversari sarebbe insostenibile. I giocatori entrano in campo e quando l’arbitro lancia la moneta per sorteggiare la porta e la palla “el Jefe” la afferra al volo e dice: «Signor arbitro, lasci ai brasiliani la consolazione di scegliere. Perché saremo noi i campioni del mondo». Sarà così, e lo si capisce proprio nel momento più inaspettato, quando il Brasile passa in vantaggio e Varela, ancora lui, va a raccogliere la palla in rete, va a protestare col guardialinee e poi si dirige lentamente verso il centro del campo, fra lo stupore generale, come se non fosse accaduto nulla, con una calma fermezza che atterrisce. Schiaffino pareggia, ma con questo risultato è ancora il Brasile ad essere campione. Poi la palla si alza, un lancio lungo che arriva fra i piedi di Ghiggia, che corre e corre e tira sul primo palo. È gol, Ghiggia salta e gioisce, lo stadio è in silenzio, il silenzio di più di 200.000 persone è terrificante.

Una tragedia si abbatte su una nazione. Furono pianti, disperazione e morte, in decine vennero stroncati da un infarto per l’enorme delusione, altri addirittura si suicidarono, alcuni gettandosi dagli spalti dopo la fine della partita. L’atmosfera era tetra e irreale, ma non c’era tensione né rabbia, i brasiliani erano a lutto come si può esserlo per un padre, c’era disperazione, malinconia. Quella sera Varela non festeggiò con i suoi compagni – ammesso che l’abbia fatto qualcuno – uscì con il massaggiatore per i bar di Rio, si ubriacò assieme alla gente, pianse con loro che senza odio o rancore abbracciavano il loro carnefice.

A quel mondiale assistette anche un bimbo di nome Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelè. Il 19 Novembre del 1969 quel bimbo segnò nello stadio teatro del Maracanazo, la più grande tragedia sportiva di tutti i tempi, il suo millesimo gol. Si sfidavano il Vasco da Gama e il Santos ma la gente era lì per “o Rei do futebol”, la partita era praticamente un contorno, un vezzo necessario affinché Pelè potesse segnare. Quando l’arbitro fischia un calcio di rigore a favore del Santos centinaia di migliaia di persone si bloccano e trattengono il fiato. Pelè era già un mito indiscusso, un patrimonio nazionale, quando tira e la palla entra in rete è una gioia per tutti, “o Rei” viene portato in trionfo e la partita (secondo alcune fonti) finisce lì, non ha più senso continuare a giocare, non importa a nessuno, o Milesimo è stato segnato. Ma il gol più bello della carriera, per sua stessa ammissione, Pelè lo realizza contro il Clube Atletico Juventus. Dopo aver dribblato Julinho, che lo marcava a uomo, supera tutta la difesa avversaria, compreso il portiere con tre sombreri di fila. Del gol non esistono immagini ma fu così bello che proprio al Maracanà fu installata una targa celebrativa, tanto che tutt’oggi viene ricordato come il “gol de la placa”.

Il Maracanà è un luogo mitico, calpestato da eroi: il primo gol lì realizzato fu di Didì, forse il giocatore più elegante di tutti i tempi, lì Garrincha faceva impazzire di gioia i tifosi del Botafogo con le sue finte, lì Rivelino sfoggiava il suo mancino come fosse la mano di re Mida con la maglia del Fluminense, e lì Zico segnò 333 gol con la indossando i colori rosso-neri del Flamengo. Quando fu costruito, il Maracanà prevedeva 100.000 posti a sedere nel secondo anello, 35.000 posti a sedere nel primo, e sempre nel primo altri 30.000 in piedi. Per finanziare la mastodontica costruzione si ebbe l’idea nel ’50 di vendere i posti in piedi con abbonamenti speciali della durata di 100 anni. Ad ogni partita del Maracanà 20.000/30.000 persone assistevano alla partita praticamente gratis, ed erano le persone più povere, quelli che non potevano permettersi i posti a sedere o le poltrone d’onore, quelli che però hanno reso il tifo di questo stadio leggendario, loro erano la torcida del Maracanà.

Sessantaquattro anni dopo, il mondiale torna in Brasile, ma stavolta la gente non è entusiasta, chiede ospedali e scuole, e non sopporta le prepotenze della FIFA. Più che una festa sembra una violenza, il cui apice simbolico è stato l’abbattimento del “vecchio” Maracanà per il nuovo, che però non conta più quei posti in piedi, che è diventato uno stadio borghese e per borghesi, mentre il calcio è del popolo tutto. Zico, intervistato in merito, ha detto che non si può uccidere la madre che ti ha tenuto in grembo. Il segnale è terrificante, il calcio non è un affare, non si guarda in giacca e cravatta, non innalza barriere, le abbatte. Ma il Brasile è una nazione che sa risorgere sempre, dopo il Maracanazo i brasiliani furono i primi a vincere per tre volte la coppa Rimet. Hanno distrutto lo stadio più grande della storia, ma non il suo mito, sempre si continuerà a cantare negli stadi Maracanà Maracanà… per quanti sforzi si possano fare, per quanti soldi e interessi potranno esserci di mezzo, il calcio resterà sempre della gente.

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