Pet Sounds compie 50 anni. E si sente benissimo.

Pet Sounds dei Beach Boys è uscito il 16 maggio del 1966: ha 50 anni. Non so se si possa definire soltanto “album”, un disco che la Library of Congress degli Stati Uniti d’America ha inserito tra le cose da preservare nei secoli a venire. Per i più piccoli che avessero bisogno di paragoni e proporzioni, Pet Sounds sta ai Beach Boys come Kid A sta ai Radiohead: qualcosa di completamente nuovo e diverso, per chi ascolta e per chi suona. Un disco così avanti e così resistente che solo nel 2000 raggiunse prima il disco d’oro e quindi il platino.

I Beach Boys sono principalmente 3 fratelli, un cugino e un compagno di scuola: Brian, Carl e Dennis Wilson, Mike Love e Al Jardine. Nella prima metà degli anni ’60 del 1900 – mentre missili in Turchia puntavano sull’ex Unione Sovietica e altrettanti a Cuba puntavano sugli Stati Uniti, mentre Kennedy veniva assassinato, mentre per i diritti degli afroamericani e umani in genere Matin Luther King prendeva il Nobel e Malcolm X veniva ucciso, mentre il numero di giovani americani inviati al fronte in Vietnam cresceva vertiginosamente – la band sfornò una serie di hit dal successo mondiale, che cantavano di estati senza fine, di bolidi decappottabili, di divertimenti al sole, in spiaggia, sul surf, tra le onde, tra i baci. California ovunque. Una vera e propria icona giovanile, che tuttavia negli ambienti del mestiere si faceva notare per il talento pionieristico per le armonizzazioni e per le tecniche di registrazione del giovane Brian Wilson.

Poi, un giorno, niente più ragazze, niente più surf, niente più estate, ma atmosfere da malinconico autunno e animali da fattoria in copertina (ma era lo zoo di San Diego). La più redditizia gallina del pollaio Capitol Records decide di fare meno uova d’oro, ma uova buonissime. Che pubblico e critica americani non digerirono proprio bene. In Inghilterra, invece, viene addirittura metabolizzato, soprattutto da 4 ragazzi di Liverpool, l’Inghilterra che proprio in quell’anno si faceva carico anche di Hendrix, altra storia. Non la presero bene nemmeno gli altri Boys – Carl, Dennis e Mike, tornati da un viaggio in Giappone – che si trovarono davanti e praticamente pronto un disco fuori dai loro schemi compositivi e programmatici, scritto in poco più di un mese da Brian Wilson e il paroliere Tony Asher; il nome Pet Sounds, infatti, viene da una battuta di Mike Love dopo aver ascoltato un po’ schifato i brani: «Chi ascolterà questa merda? Un cane?»

Quella merda fu scritta tra il dicembre del 1965 e il gennaio del 1966: di quell’arco di tempo solo un’ora fu impiegata per scrivere la canzone God Only Knows. Il 3 dicembre 1965 era uscito Rubber Soul dei Beatles e per Brian Wilson niente fu come prima. Se poi ci aggiungete un pizzico di LSD, l’esaltazione fu totale: Brian Wilson aveva finalmente trovato il disco da battere, non in classifica, ma in valore. Nel giro di qualche mese Wilson affinò ulteriormente le sue abilità di tecnico del suono (dalla Capitol aveva già in contratto dai tempi di Surfin’ U.S.A. il permesso di scegliere a suo piacimento e a sue spese studi e strumentazione), tanto da rendere lo studio di registrazione, strumento musicale stesso. Non si fece mancare nulla: registrò cani, biciclette, violini e clavicembali. Poi alle canzoni toglie il ritornello dove può, dissemina cambi di tonalità, gli infila due brani strumentali non proprio immediati e un vago senso di caducità del tempo, e – udite udite – esclude quello che un anno dopo fu il loro brano più venduto in assoluto nella loro carriera: Good Vibrations.

Ma non solo per questo dovremmo farci piacere e accettare nelle nostre vite Pet Sounds. Nel 1967 i Beatles pubblicano il loro capolavoro: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un disco nato nel tentativo di eguagliare Pet Sounds. Giuro: l’ha detto George Martin. Tutto questo costò a Brian Wilson il cervello e aveva solo 23 anni.
Dovremmo riascoltarlo almeno per riconoscenza.

Se volete sapere di più sui Beach Boys ascolta la puntata dedicata di Dica 33:

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