IL PIU BEL GOL DELLA STORIA DEL CALCIO

Racconto breve di come una mosca dopo una capriola sulle mattonelle si rialza e segna il gol più bello di sempre.

 

sgarrincha il gol più bello della storia del calcio

 

Il nostro stadio era un campo disegnato sulle mattonelle del cortile dell’oratorio di via Cifali, a pochi passi dallo stadio vero, dove giocavano i campioni – campioni per noi.

Gli spalti erano delle panchine di ferro dipinte di rosso e d’azzurro per coprire la ruggine. Gli spettatori erano i ragazzi che aspettavano impazienti il loro turno o che avevano appena finito di giocare, guardavano la partita a ridosso della linea del fallo laterale e non avrebbero esitato a sgambettare un’ala troppo spavalda se si fosse involata verso la porta della squadra di un amico in quel momento in campo; poi c’erano genitori invadenti che avevano deciso di assistere alla partita nonostante le ripetute e decise proteste dei figli, che avrebbero poi dovuto sopportare gli scherni dei compagni, consapevoli ma incuranti che loro le avevano provate proprio tutte per non far venire papà e (soprattutto) mamma; infine c’erano le ragazzine invaghite di qualche aspirante calciatore, convinte che fingere di essere interessate alla partita o addirittura (che ardire!) di capire cosa stesse succedendo dentro quel rettangolo gli avrebbe procurato un fidanzatino.

Tutta la settimana aspettavamo quel momento giocando nei cortili e nelle piazze, a volte qualcuno arrivava al pomeriggio, tutto fiero perché aveva scoperto un campo abbandonato, o uno privato con un buco nella recinzione o un muretto facile da scavalcare.

Allora si partiva tutti insieme e lo si occupava fin quando non arrivava un custode o la municipale, allertata da qualche ficcanaso, a farci sloggiare: correvamo tutti come furetti e anche se stavamo giocando già da tre ore difficilmente i nostri attempati inseguitori riuscivano ad afferrarci. Giocavamo fino a quando faceva buio e il pallone quasi non si vedeva più, un giorno Ciccio – che adesso è laureato in ingegneria elettronica, ed è andato negli Stati Uniti a lavorare – arrivò con un pallone che aveva interamente colorato con un evidenziatore, dopo aver visto la sera prima Russia – Italia in TV, partita d’esordio di Gigi Buffon giocata in pessime condizioni, sotto la neve e con un vistosissimo pallone arancione. Ovviamente l’invenzione fu assolutamente fallimentare, ma la genialità di Ciccio resta per me tutt’oggi indiscutibile.

Il sabato pomeriggio andavamo all’oratorio per l’ultima partita prima del campionato della domenica.

Io ero un ragazzino alto e magro, mi atteggiavo a bulletto ma ero solo all’inizio di quella parabola di barbarie che avrebbe raggiunto il suo punto massimo solo anni dopo, e le avrei prese da chiunque, o quasi. Dovetti quindi arrangiarmi in mezzo a ragazzini un po’ più grandi che già guidavano motorini truccati (e non sempre avevano l’età per poterlo fare) e in tasca avevano un coltellino, chè anche se non lo usi è sempre bello da mostrare.

Intendiamoci, quelli così erano quattro o cinque, ma il loro carisma era forte e riuscivano sempre a crearsi un gruppetto misto di amici fidati e adepti sottomessi, e gli schieramenti era chiari e definiti: da un lato c’erano loro e dall’altro quelli come me che da questo sistema venivano assorbiti o schiacciati.

Una volta, Marzio – il più temuto fra tutti, sicuramente più grande di noi, alto, con la pelle olivastra e le spalle larghissime – si sedette a guardarci mentre giocavamo nel campo più piccolo. Forse annoiato dalla partita decise di alzarsi, impossessarsi della palla e scoppiarla col suo coltellino.

La palla era di Giacomo – un mio amico paffuto, dalla memoria invidiabile, iracondo e con una smodata ammirazione per Igor Protti – a cui faceva difetto il talento calcistico, motivo per cui si era autoproclamato portiere senza però esser così riuscito a migliorare le sue prestazioni, ma di certo non il coraggio: diventò rosso dalla rabbia e si avventò sbuffando sul soverchiatore per avere vendetta. Riuscì a colpirlo con un pugno alla schiena ma in risposta ricevette un calcio in pancia così forte che cominciò a vomitare verde bile. Restammo impotenti a consolare Giacomo.

A quell’età non ti fai domande sul perché un ragazzo si comporti così, non vedi che anche lui è come te, che il suo atteggiamento aggressivo è una difesa, che non si tratta di cattiveria ma d’istinto di sopravvivenza: e lo odi.

Erano i primi giorni di settembre, giocavamo partite bellissime che duravano ore senza mai un calo del livello di gioco.

Segnavo tantissimi gol ed ero veloce, ma soprattutto la passavo, qualità molto rara. Il passaggio era un atto obbligatorio solo per quelli scarsi tecnicamente, che dovevano disfarsi immediatamente della palla prima di combinare guai, e che per quelli bravi era concepito solo se di tacco, di spalla o come ultimissima risorsa per non perderne il possesso.

Riuscii così a giocare le partite con quelli bravi, e quasi sempre era la mia squadra a vincere. Un pomeriggio mentre mi riposavo all’ombra giocando coi miei amici alle figurine, mi si avvicinò Muschitta ad annunciarmi laconico che avrei giocato nella sua squadra durante il campionato.

Muschitta era uno di quei capetti che si era guadagnato il rispetto e il timore degli altri non per particolari doti fisiche, era infatti particolarmente basso, ma grazie alla sua abilità nell’impennare coi motorini e al suo talento calcistico. Era sempre teso, aggressivo, parlava a scatti e in dialetto stretto, si muoveva sempre, in tutte le direzioni, come una mosca.

A calcio era davvero fortissimo, tecnicamente il migliore era anche il più determinato.

Giocava a centrocampo, era il perno della squadra, andava a prendere palla dai difensori e creava gioco, che poi lui stesso spesso finalizzava. Quando la partita non si sbloccava ci pensava lui con un’azione solitaria che finiva sempre con un gol, suo o di ribattuta a un suo tiro.

Diventammo amici, o qualcosa di simile, andammo persino allo stadio insieme, a vedere il derby col Trapani che ci aveva battuto 3-0 all’andata. Il Catania vinse 3-2 e il primo gol lo firmò Umberto Brutto, giocatore eccezionale che mi rimase nel cuore un po’ per quella partita speciale un po’ perché aveva la maglia numero 7 come me, e che l’anno dopo assieme a Ciccio Passiatore avrebbe portato il Catania a vincere il campionato.

Allo stadio andammo in sei, due tizi più grandi che non ho mai capito se e di chi fossero gli zii, io e i tre pilastri della squadra: Nunzio Cinesca, Robertone e ovviamente Muschitta.

Nunzio era il nostro portiere, non molto alto, quando per la prima volta si mise tra i pali destò non pochi sospetti che lui respinse energicamente affermando di essere una saracinesca. Malauguratamente anche gli avversari lo avevano sentito e ad ogni gol gli gridavano in faccia “bravo ‘Cinesca”, “bella ‘Cinesca”. Accumulò una rabbia tale che nelle partite successive si trasformò completamente, velocissimo nelle uscite basse era pure uno dei pochi a lanciarsi a terra incurante di dover strisciare non sull’erba del Cibali ma sulle mattonelle del nostro campo, sulle palle alte era diventato il terrore degli avversari già alla terza partita quando ruppe il naso ad un attaccante con un pugno che se non colpiva la palla andava comunque sempre a segno. Cinesca da scherno era diventato suo epiteto encomiastico al pari di piè veloce.

Robertone era un ragazzo enorme, buono e tardo. Lo potevi prendere in giro per ore prima che se ne accorgesse e ti mollasse un ceffone non tanto per farti male, anche se guancia e orecchio sarebbero rimasti gonfi per giorni, quanto per ricordarti che quello che stavi facendo era sbagliato.

Lo stesso identico criterio lo adottava con gli attaccanti avversari, che spesso finivano a terra dopo averlo dribblato perché quello che avevano appena fatto non era né carino né educato.

Robertone aveva una sua etica personale che non tollerava l’ingiustizia, ma che faceva rispettare a forza di schiaffi e gomitate, ed erano poche le partite in cui non spaccava un sopracciglio o anche solo un capillare a qualcuno.

Il cammino verso la partita era lungo e impervio, e l’ostacolo più grande era proprio la domenica: la messa.

Io facevo il chierichetto, un po’ perché mi faceva sentire protagonista – in fondo vedevo la messa come una rappresentazione, ed esserne attore invece che spettatore mi divertiva – un po’ perché quando il cestino delle offerte era pieno, assieme a Federico, operavo un piccolo prelievo che veniva speso tutte le volte il sabato successivo in coca cola e figurine.

Gli altri ragazzi invece soffrivano terribilmente, nei primi banchi, coi completini addosso già sudati, non riuscivano a tenere ferme le gambe e all’andate in pace la sensazione era un’estasi di sollievo e adrenalina: finalmente si gioca!

Il campionato fu molto duro, le squadre all’inizio della stagione le avevano fatte i capi. Muschitta era il nostro, era il più forte a calcio ma non il più forte a pugni, così non era riuscito ad accaparrarsi i giocatori migliori. Io era dato per spacciato, in molti erano sicuri che avrei presto preferito le carezze della mamma alle botte in campo, Robertone era considerato un idiota e Nunzio fino ad allora aveva preso solo gol e insulti.

Dopo le prime tre gare però arrivò la prima vittoria, fu una gioia così grande che ci assuefacemmo e non smettemmo più di vincere.

Arrivammo alla finale contro la squadra di Marzio, attirandoci l’odio di alcuni che vedevano minacciata la gerarchia dell’oratorio, e l’ammirazione sommessa di molti che segretamente sognavano lo sgretolamento di quella gerarchia.

Faceva caldo, il gioco era lento e continuamente interrotto da falli. Il primo tempo era finito solo 1 – 1. Un mio gol di rapina con un tiro di punta che si era infilato in mezzo alle gambe del portiere al quale avevo intercettato un rinvio, rispondeva ad un loro gol dopo una mischia in area di cui ricordo solo le urla.

Al secondo tempo Muschitta cominciò a tenere il pallone per sé, noi eravamo esausti e gli avversari estenuati dai suoi tunnel.

Marzio decise allora di dare una svolta all’incontro a suo modo: si lanciò contro Muschitta, che ovviamente aveva il pallone fra i piedi a centrocampo, e gli rifilò un calcione che colpì entrambe le gambe del nostro capitano.

Muschitta volò letteralmente in aria, tutti restammo immobili ad aspettare il terribile impatto con le mattonelle, cadendo fece una capriola in avanti raccolse il pallone che gli era rotolato accanto e scattò verso la porta: tunnel al primo, pallone da un lato e corsa dall’altro a superare il secondo, finta di tiro, pallone sul sinistro poi sul destro, uscita furibonda del portiere, scavetto ad alzare il pallone per superarlo e tiro.

Gol!

Applausi, urla, braccia al cielo: eravamo campioni del mondo, almeno del nostro.

 

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