Il muto

 «Voglio che mi ricordino come qualcuno che ha cercato di giocare bene a pallone»

Quando ero bambino osservavo i grandi, per capire come ci si comporta, per capire come si sta al mondo. I miei prediletti erano mio padre e mio nonno, due persone molto diverse fra loro, ma con una peculiarità in comune: parlavano poco. Ascoltavano apparentemente distratti, immobili, imperscrutabili, in silenzio. Parlavano solo quando strettamente necessario, chiari e risoluti, quando le cose si facevano troppo difficili e complicate. E allora aprivano uno squarcio di lucidità inaspettata. Mio padre col suo eloquio ammaliante, a bassa voce, quasi sussurrando – riuscendo ad ottenere quel silenzio che non si ottiene urlando – costringendo gli altri a concentrarsi sulle sue parole, senza fiatare. Mio nonno con frasi secche e taglienti, rare e dette all’improvviso.
Così sono cresciuto nell’ammirazione di chi non sciupa la parola.

Juan Romàn Riquelme è un uomo di poche parole, sia in campo che fuori, tanto da essere soprannominato da tifosi e compagni El Mudo (il muto). Quando giocava nel Barcellona, Van Gaal cominciò a urlargli contro durante l’allenamento, per dimostrare a tutti i suoi giocatori che era lui al comando e la sua autorità non poteva essere messa in discussione nemmeno dal più talentuoso di loro. Riquelme non disse nulla, non reagì alla pantomima dell’olandese, che si agitava e urlava sempre forte. Un compagno gli si avvicinò pregandolo di dire qualcosa per far calmare il mister «altrimenti finisce che ci picchia tutti». Riquelme si allacciò le scarpe e rimase lì come se niente fosse, ancora in silenzio.

El Mudo è un’iperbole – Riquelme parlava eccome quando era necessario – che sottintende rispetto e ammirazione.
Perché, dopo averlo affrontato senza retrocedere di un passo, decise di non rivolgere più la parola all’allora presidente del Boca Mauricio Macrì – imprenditore e uomo politico argentino già Jefe de Gobierno de la Ciudad de Buenos Aires, tanto potente da essere considerato uno dei padroni dell’Argentina.
Perché quando rapirono suo fratello si assunse la responsabilità della trattativa per il rilascio, in drammatica intimità.
Perché nel calcio e nella vita è rimasto coerente a sé stesso, senza farsi mai travolgere dal vortice mediatico.
Perché lui, Romàn, faceva parlare i piedi.

Si dondolava sul pallone dando l’impressione di essere costantemente sul punto di cadere, poi si fermava con la schiena dritta, immobile, palla attaccata al piede, ricominciava, la toccava sei, sette volte ubriacando l’avversario e a quel punto: la grande giocata, il dribbling che non puoi aspettarti.

Manuel Pellegrini – che pure ebbe dei problemi con Riquelme – parlava di lui come di un giocatore eccezionale, capace di pensare contemporaneamente a tre possibili giocate e di scegliere la migliore. Io non sono d’accordo: Riquelme non sceglieva la migliore, ma la più bella. Un vero esteta del fùtbol, elegantissimo quando accarezzava la palla con la suola della scarpa – specialità nella quale è il più grande di tutti.

I suoi gol sono tutti belli, difficilissimo trovarne uno brutto perché nemmeno ci provava – e se ci riuscite osservate la sua espressione dopo aver segnato, sembra quasi pentito – non concepiva la giocata mediocre: semplificava l’impossibile e complicava il banale. Le traiettorie dei suoi tiri, dei suoi passaggi sono il manifestarsi di un’evidenza geometrica che solo il grande campione percepisce. Spesso non aveva bisogno di guardare per vedere il compagno smarcato o l’angolo giusto della porta.

Andrès Iniesta ha dichiarato che Messi è il giocatore più forte del mondo, ma solo perché Riquelme è fuori concorso. Sembra follia, invece è sentimento.

Riquelme emozionava e stupiva. Sulla sua maglia c’era scritto Romàn e quando, dopo aver segnato, accostava le mani alle orecchie, la Bombonera urlava di gioia e d’amore. Se chiedeste a un tifoso del Boca quale potrebbe essere il giocatore perfetto, su una cosa sola sarebbe sicuro: dovrebbe avere il piede sinistro di Maradona e il destro di Riquelme.

Con Bianchi in panchina, unico allenatore con cui andò sempre d’accordo, il modulo degli Xeinezes era il 4-3-Romàn-2.

Indossava il 10, che lui diceva essere solo un numero, che quando giocava non si guardava mica la schiena, io non gli credo neanche un po’. Sapeva che il 10 nel calcio, in Argentina, a Buenos Aires non è un numero qualsiasi.

Lo accusavano di essere lento, ma il calcio non è una gara di corsa, deve correre il pallone, gli altri giocatori. Il Diez detta i tempi, rallenta per poi accelerare, dirige la squadra, suggerisce i movimenti, mostra quello che altri non possono.

Riquelme ha qualcosa di speciale, di mistico, che lo allontana da tutti gli altri giocatori, è palesemente diverso, è un autentico Diez. L’ultimo per i suoi tifosi, per il calcio: Riquelme, el Ultimo Diez.

 

 

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