Una valigia pronta insieme a un biglietto di sola andata per oltre oceano, un italianuzzo di origine meridionale, di quelli che calcisticamente tanto facevano simpatia a Gianni Brera; poi i saluti, gli abbracci, un bacio da parte della mamma e del papà, una calabrese e l’altro palermitano, il più classico << Ma’ ti scrivo appena arrivo>>, non più una lettera o una cartolina ma un semplice sms e infine la valigia sul taxi diretto verso l’aeroporto di Caselle.
Sembra l’identikit, fresco di restauro contemporaneo, di quei tanti italiani che partivano con valigie vuote, oltre che lo stomaco e le tasche, ma con la testa piena di sogni e speranze, seguendo quella rotta che oltrepassando il mitologico confine delle colonne d’Ercole conduceva lungo l’Atlantico verso la terra promessa a stelle e strisce, sedotti e attratti da motti e propaganda o dai suggerimenti di chi cugino o zio d’America di turno aveva già trovato miglior sorte oltre lo sbarramento di Ellis Island.
Dubito fortemente che Sebastian Giovinco si possa essere sentito così o che sia dovuto passare dalla calca disumana che affollava l’isola dello smistamento di chi duecento e passa anni fa sbarcava in America; sicuramente il concetto e la voglia di trovare miglior sorte non sono però tanto diversi e quello di Giovinco in USA pone sotto una luce diversa quel mito tutto italiano del sogno americano.
Ciò che non passa inosservato di questa singolare vicenda del recente calciomercato è sicuramente la carta d’identità della mezza punta passata anche per Empoli e Parma, oltre al fatto che si tratta di un giocatore che da qualche anno ormai fa parte con continuità del giro della nazionale azzurra.
Per molti infatti la scelta di Giovinco è stata un azzardo, una rinuncia alla gloria ad appena ventisette anni a favore di un lungo e ricco contratto nella pur sempre giovane lega professionistica americana, considerata ancora più un ricco cimitero di elefanti che un campionato competitivo.
Eppure il passo compiuto da Giovinco indica un cambio di tendenza, una svolta, non solo economica per il calciatore ma soprattutto tecnica per la stessa lega americana, che tra un Beckham e un Villa adesso cerca di compiere il passo ulteriore, cercando professionisti e atleti non più all’ultima spiaggia bensì calciatori nel pieno della loro crescita e maturità tecnica.
Tornando però al nostro italico “ Sogno Americano” la storia di Sebastian Giovinco è sia apripista che ultimo tassello in ordine di tempo di un sempre più consistente flusso migratorio di calciatori italiani che tentano con obiettivi diversi l’avventura oltre oceano.
Se tutti ci ricordiamo le avventure a fine carriera di Walter Zenga e Roberto Donadoni, sbarcati ultratrentenni nella neonata Major League Soccer, ai quali si collega analogamente l’esperienza di Alessandro Nesta, Bernardo Corradi e Marco Di Vaio, quest’ultimo protagonista di tre stagioni grasse di goal con la maglia dei Montreal Impact, diversa al contrario è la vicenda di altri tre italiani giunti nello stesso periodo nella compagine canadese affiliata alla massima serie statunitense; uno di questi è Daniele Paponi, classe ’88, attaccante cresciuto nel Parma, nel quale ha esordito giovanissimo durante l’era Prandelli, complice quel crack Parmalat che ha costretto di fare di necessità virtù concedendo ad alcuni giovani di mettersi in luce, tra i quali Rosina, Cigarini, Ruopolo e appunto Paponi.
Dopo alcune brillanti prestazioni in coppa Uefa e alcune buone prestazioni in prima squadra e alcuni prestiti, la punta parmense ha fatto la valigia destinazione Montreal, su consiglio di Di Vaio, appena sbarcato assieme ad un altro carneade bolognese Andrea Pisanu, secondo nome della nostra lista.
Su quest’asse costruito sulla via Emilia, la squadra canadese, del futuro presidente del Bologna Joe Saputo, ha rilanciato di gran lunga le sue ambizioni, grazie soprattutto all’ex bomber di Juve e Valencia ma anche grazie al sostegno di questi due bomber di provincia, vogliosi di esprimersi e riscattarsi in un calcio che fosse diverso e ambizioso. Dopo la stagione in Mls entrambi i giocatori, complice anche l’addio al calcio giocato di Marco Di Vaio hanno preso la via del ritorno, Paponi andando ad Ancona in lega pro, Pisanu sbarcando nel campionato maltese, continuando così l’esperienza da giramondo.
Con loro arrivò pure Matteo Ferrari, uno di quei giocatori che nonostante una bella carriera avrebbe potuto dare di più, pensando soprattutto al periodo diviso tra Roma ed Everton. Dopo Genoa e Besiktas, l’italo-nigeriano sbarca a Montreal, formando con Alessandro Nesta la migliore coppia di centrali della MLS, lasciando la compagine canadese dopo tre stagioni da titolare inamovibile.
Discorso simile vale per Marco Donadel, per anni fedelissimo prandelliano nella Fiorentina e nel Parma prima ancora, oltre che ex di Hellas Verona e Napoli.
Adesso il mediano cresciuto nel Milan ha preso la via del Canada, pochi mesi prima di Giovinco, marcando alla prima presenza in Champions League centroamericana il goal vittoria nella semifinale di andata della massima competizione continentale.
Insomma il Canada sembra essere diventato la nuova frontiera dell’oro per coloro i quali nel vecchio continente del football hanno trovato un cono d’ombra, senza aver smarrito la fame o la voglia di misurarsi ad un livello di competizione stimolante e ambizioso, abbracciando un progetto tecnico e mediatico che da quella lontana e calda estate del ’94 ha compiuto passi da gigante, riempiendo stadi e anche palinsesti televisivi, troppo restii in precedenza nel dare spazio agli sport nati sotto la Union Jack.
L’avventura calcistica di Giovinco in terra americana nel suo piccolo è forse solo uno dei tanti fortunati viaggi oltre atlantico compiuti da nostri atleti, se non addirittura il più importante dal punto di vista mediatico, se consideriamo che nessuno dei vari Bargnani, Gallinari e Belinelli, affermati campioni NBA, venne accolto dalla stampa sportiva americana come è stata accolta la “Formica atomica” al suo arrivo, creando aspettative del tutto nuove nel panorama calcistico a stelle e strisce, chiaro segnale che da quelle parti si è deciso di fare sul serio, che il soccer anche lì sta diventando football.
Ma se per Sebastian Giovinco e alcuni suoi predecessori lo sbarco nel mondo del soccer è avvenuto sul red carpet, per altri come Simone Bracalello, Paolo Tornaghi e Cristian Arrieta l’inizio dell’avventura è stato molto diverso e il viaggio, compiuto con una valigia con dentro la sola certezza delle scarpette da calcio, molto più lungo, partendo dalle periferie dei campi dilettantistici italiani fino ad arrivare di fronte ai talent scout del Minnesota, dell’Illinois o del caldo caraibico di Puerto Rico.
Tutti e tre con la comune speranza di fare fortuna nella terra in cui se parli di football ti danno una palla ovale e Sylvester Stallone gioca con Pelè contro i nazisti. Almeno questo c’era una volta in America, nell’America di Hollywood e dei 30 gradi di Pasadena, prima della formica atomica e che la storia di questi tre ragazzi made in Italy avesse inizio.