Catania e “Allarme sismico”

La città di Catania, divenuta zona sismica ai fini normativi dal 1981, presenta una problematica che necessita maggiore informazione e minore indifferenza. Trecento anni fa l’ultimo evento simico significativo, avvenuto nel 1693, ha interessato la Sicilia Orientale, e se il tempo che intercorre tra un evento di tale portata e un altro è di trecentocinquant’anni è ragionevole supporre la probabilità di un imminente terremoto di forte intensità nella medesima zona. Che cosa accadrebbe se un forte sisma colpisse la città? La maggior parte degli edifici della “nuova Catania” costruiti nel ventennio ’60 – ’80, prima dell’entrata in vigore delle norme antisismiche, è ad alto rischio di crollo ( anche in seguito ad eventi sismici non necessariamente severi). Quasi l’ 80% degli edifici esistenti, dunque, risulta fortemente vulnerabile di fronte ad una forte scossa e il prospetto degli esperti a conseguenza di ciò è che buona parte della città di Catania rimanga distrutta. Da un ventennio circa si studia la città di Catania da un punto di vista sismico. Tuttavia, nonostante vi siano diversi studi orientati sia alla valutazione della vulnerabilità sismica degli edifici esistenti che alle tecniche di miglioramento e adeguamento sismico, occorre segnalare che da un punto di vista politico è stato fatto poco. In occasione di un convegno, che si è tenuto lo scorso undici Febbraio nell’Aula magna dell’edificio Didattica alla Cittadella universitaria, l’Ance Catania ed il Dipartimento Ingegneria e Architettura (DICAR) dell’Università di Catania hanno esposto i possibili scenari, strategie e soluzioni riguardo al rischio sismico a Catania.

 

Occorre immaginare dei piani d’intervento o di progressivo miglioramento di edifici esistenti o di demolizione e ricostruzione, tenendo conto che i proprietari degli immobili devono ricevere un supporto per poter intervenire. «Un problema che non deve essere ignorato » ci spiega il prof. Ivo Caliò, docente dell’ateneo Catanese, «nell’ipotesi che se dovesse arrivare un evento sismico il danno economico in termini di vite umane sarebbe ben più grave », ma aggiunge anche « è evidente che è impossibile migliorare sismicamente un territorio così vasto in poco tempo, però bisogna iniziare questo processo di miglioramento a riduzione del rischio ».

Stimolare il dibattito a livello politico è un grande passo, rivendicando le ricorse del territorio evitando gli sprechi del passato, per investire nella riqualificazione antisismica attraverso l’innovazione. «Non dobbiamo aspettare che gli altri facciano» dichiara il presidente dell’ANCE Catania Nicola Colombrita « dobbiamo adeguare gli edifici esistenti diffondendo questa cultura di prevenzione. I tecnici dimostrino che questi interventi possono essere economicamente sostenibili ». Influisce però la questione legata al calo dell’edilizia: una situazione drammatica che secondo i dati è di un -70% a Catania e un -50% in tutta Italia, per la bassa frequenza con cui si vendono case nuove e si eseguono lavori pubblici; il settore della ristrutturazione sembra l’unico a non essere in declino, ma solo al nord, dove gli incentivi che lo stato da sino al 65% della spesa sostenuta sono ben utilizzati e l’aumento del settore della ristrutturazione ha compensato la grave perdita del nuovo costruito, cosa che nel meridione per ragioni economiche non è avvenuta.

Bisogna tener conto delle soluzioni. È possibile richiedere dei finanziamenti sotto forma di contributi, di sgravi nelle tasse: utilizzando 100.000 euro per un intervento di ristrutturazione, lo stato ne restituisce 50.000 in dieci anni in sconto fiscale. Molto si può e si deve fare, di fronte all’ipotesi che un terremoto di forte intensità possa colpire Catania e la Sicilia Orientale nei prossimi cinquant’anni. Il dipartimento d’Ingegneria civile e architettura di Catania, attraverso l’ufficio dell’Ateneo Rispe, che si occupa di mappare e censire gli edifici dell’università di Catania ( quasi cento edifici mappati e già cinque adeguati al rischio sismico ), fornisce le sue competenze perché si possa intervenire nella gestione del rischio, piuttosto che in una gestione dell’emergenza.

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